Emozionarsi Conviene

Esploriamo il mondo interiore di ogni essere umano, quello più viscerale e – apparentemente inspiegabile: il mondo delle emozioni. Cosa sono? Come nascono?

E, soprattutto, a cosa servono? Se, infatti, in prima battuta potremmo cadere nel tranello di credere che vi siano emozioni buone ed emozioni cattive, in

Emozionarsi conviene scopriamo che tutte hanno un loro obiettivo e assolvono a una precisa funzione che trova le sue origini nell’inizio dei tempi, nei primi passi che l’uomo ha mosso sulla Terra. Dunque, tutte le emozioni vanno accolte, ciò che conta è non farsi sopraffare da esse.
A tale scopo, vengono indicate anche una serie di soluzioni attinte da più discipline, per avere maggior controllo e padronanza dei propri stati interiori.

Breve analisi dei sistemi spirituali

Tutte le religioni sono simili?

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Tutti i sistemi filosofici, spirituali, religiosi o misterici, si ispirano a un insieme di principi, più o meno complessi, da cui sono governati. Da esso discendono cause ed effetti, non solo nel mondo per così dire immanente – ovvero quello che sperimentiamo attraverso la materialità dei nostri sensi – ma anche, spesso, nei cosiddetti mondi trascendenti; tra questi, di solito, distinguiamo quello dell’oscurità, asserito appannaggio dei morti e, non di rado, di tutte le cose negative, e quello cosiddetto “superiore” o della luce, affine a ciò che è bello, buono e latu sensu positivo.

Non importa quale siano i luoghi in cui sono stati generati miti e visioni spirituali; tutte loro – con ragguardevoli per quanto rare eccezioni – condividono l’esigenza di essere fine e inizio dell’universo che descrivono. Universi che, in quelle regole, devono trovare non solo spazio per esistere ma anche ragioni e giustificazioni di ciò che, invece, avviene qui, nel luogo della materialità.

Con ciò, è bene evidenziarlo con chiarezza fin dall’inizio, non si vuole muovere una critica a questa o a quella visione spirituale o filosofica, men che meno ad alcuna religione. Semplicemente si intende applicare la pratica dell’osservazione – oggettiva e neutrale – anche a questi contesti. Contesti che – potrebbe sostenere qualcuno – esistono alla stregua degli altri costrutti umani, ancor prima di essere riconosciuti e vissuti come veri, autentici e reali a tutti gli effetti.

Applicando allora la nostra osservazione passiva, priva di intenzioni o giudizi, potremmo notare come detti contesti condividano la comune esigenza di possedere alcune caratteristiche intrinseche. Nel ricercarle daremo quindi loro una definizione, non tanto per amore delle etichette, quanto piuttosto per esigenze di ordine logico e di condivisione…

Come si diceva, ogni filosofia/religione/visione possiede – anzi si fonda – su alcuni principi cardine. Su questi, a loro volta, al pari di teoremi “scientifici”, si radicano corollari su corollari, fino a creare una intelaiatura che, allo stesso tempo, è contesto e struttura portante del sistema in esame. Si tratta degli strumenti necessari per garantire, secondo molti, la cosiddetta coerenza interna di un sistema ma, come vedremo più avanti, questo approccio strutturale assolve a funzioni specifiche e ben definite.

Facciamo un esempio (cui peraltro sono particolarmente legato) e pensiamo ad uno dei sistemi più noti, diffusi ed efficaci, cioè all’Ayurveda. L’Ayurveda, in via approssimativa, si fonda sull’esistenza di cinque elementi, di densità diversa e variabile, che mutano l’uno nell’altro, aumentandone il livello da quello livello eterico (ākāśa) a quello materiale (pṛthvī).

Questi sono considerati come i veri e propri mattoni dell’universo nonché dell’essere umano, e sono conosciuti come i cinque grandi elementi. Stiamo parlando, com’è ovvio, di

  • spazio/l’etere (ākāśa)
  • aria  (vāyu)
  • fuoco (tejas)
  • acqua (jala)
  • terra (pṛthvī)

Che tutto si fondi su essi è una “teoria fondamentale” dell’Ayurveda. Non è importante, in questo contesto, analizzare le radici (scientifiche, sperimentali, logiche, fideistiche ,…) che abbiano indotto i fondatori del sistema a raggiungere questa consapevolezza; sta di fatto che essa “è” un presupposto fondamentale dell’Ayurveda.

Tutto ciò che ci circonda – per l’Ayurveda – è pertanto composto da un differente assortimento di questi elementi, ovviamente in proporzioni diverse. Circostanza che, ripetendosi anche all’interno dell’essere umano, determina consequenzialmente la teoria dei tipi costituzionali (i dosha) ma anche, scendendo per così dire di livello, dei tipi di tessuto (dhata), dei tipi di canali del corpo (srotas) e dei tipi di accumulo di tossine (ama).

L’esistenza dei Dosha, Dhata, Srotas e Ama è un “corollario” della teoria principale. Con questo – si badi bene – non si vuole assolutamente sottintendere che questi ultimi siano una ricostruzione irreale o inefficace allo scopo per cui furono pensati; non si ha alcuna intenzione di ridurli a meri costrutti mentali dell’uomo, a categorie astratte o dedotte dalla realtà immanente. Semplicemente si osserva come il “sistema Ayurveda” sia fondato su una serie di principi fondamentali e di corollari, all’interno dei quali ogni cosa (dall’universale al microscopico) può essere considerato, letto, interpretato e giustificato. I Dosha, a loro volta, danno origine ai cosiddetti “tipi costituzionali”, composti ciascuno da un diverso assortimento dei mattoni fondamentali innanzi ricordati. Ed ecco che la composizione degli elementi fondamentali produce il tipo Vata, Pitta o Kapha. In ognuno di essi si assiste alla prevalenza di alcuni dei cinque elementi fondamentali. Etere e aria per Vata, fuoco e acqua per Pitta, acqua e terra per Kapha.

La struttura dell’Ayurveda – in questo contesto solo accennata, e peraltro in modo assolutamente sommario – fornisce non soltanto un contesto all’interno del quale leggere ogni circostanza, ma anche una chiave interpretativa per giustificare (ovvero dare una spiegazione comprensibile) ogni possibile evento. Così il tipo costituzionale Vata, ad esempio, può andare in contro a insonnia, disordini respiratori e difficoltà digestive. Siccome, poi, ogni cosa contiene una porzione dei cinque elementi fondamentali, ogni squilibrio può essere bilanciato dall’assunzione di quegli elementi di cui si è carenti o dalla riduzione di quelli per i quali si attraversi un eccesso. Il tipo Vata può, per restare nella banalizzazione del nostro esempio, trarre beneficio nello stare al caldo, nel prediligere gusti dolci-aspri e salati o nel ridurre il consumo di quasi tutti i legumi.

È evidente, stiamo banalizzando una conoscenza millenaria, ma questo solo allo scopo di mettere in evidenza il sistema astratto alla base del suo funzionamento, al pari di ogni altra visione filosofica o spirituale, come appunto si diceva. Questa esigenza di contemplare ogni possibilità in un disegno che, per quanto anche assai complesso, sia riconducibile a poche regole fondamentali, potrebbe essere definita come una tendenza al “riduzionismo universale”. E il termine non tragga alcuno in errore, è tutt’altro che dissacratore o sprezzante; la scienza moderna e occidentale, quella che ha portato l’uomo sulla luna, sconfitto malattie terribili e che ci ha consegnato una vita, tutto sommato, più comoda e sicura, è stata – almeno fino poco prima dei nostri giorni – la massima espressione del pensiero riduzionista.

Ridurre i problemi complessi in altri più semplici da risolvere non solo è una attitudine efficace nel cosiddetto problem solving, ma ha costituito una efficientissima strategia di sopravvivenza per gli uomini nel corso della loro evoluzione.

Accanto a questa esigenza primaria, ne possiamo però identificare altre. Immediatamente dopo la prima incontriamo infatti, quella che potremmo definire come “autoreferenzialità”. Con tale termine intendiamo riferirci al bisogno, avvertito da ognuno dei sistemi in esame, di trovare una giustificazione di ogni fenomeno al proprio interno. Mi spiego meglio; in ogni sistema oggetto della nostra osservazione ciascuna circostanza (tanto una malattia quanto un fenomeno fisico) deve trovare una causa, di cui è effetto, all’interno di sé stesso. Ad esempio – per restare nella banalizzazione precedente – un tipo costituzionale Pitta, può risentire di carenze degli elementi costitutivi (fuoco e acqua), ma al contempo può soffrire degli eccessi degli stessi o degli altri elementi.

Trovare una giustificazione “interna”, al pari del riduzionismo universale, consente di contenere ogni fattispecie umanamente percepibile e di trovarne una spiegazione non solo logica ma anche coerente con il sistema stesso. Ciò non soltanto consolida, agli occhi dei praticanti, l’efficacia del sistema applicato ma, contemporaneamente, rinforza la fiducia degli stessi nel medesimo. Trovare SEMPRE una giustificazione (nella dinamica causa/effetto) all’interno di un determinato sistema raggiunge quindi l’indubbio obiettivo di ampliare e fidelizzare i propri aderenti.

Ma non basta; accanto al riduzionismo universale e alla autoreferenzialità, ogni sistema possiede una terza caratteristica fondamentale che definiremo come “esclusionismo”; con questa nuova etichetta ci riferiamo alla tendenza – intrinsecamente propria dei sistemi in parola – di escludere l’applicazione di qualsivoglia altro sistema nella risoluzione dei problemi, tanto di questo mondo quanto degli altri.

Non si tratta di assumere una posizione isolazionista, tipica degli estremismi; non si tratta di dire “o con me, o contro di me”, quanto piuttosto di escludere l’utilità – o persino la veridicità – di quanto affermato dalle teorie degli altri sistemi. Ciò asseritamene in ragione della fondatezza e delle teorie e dei corollari del “proprio” sistema ma, in realtà, plausibilmente per garantire la sopravvivenza di quest’ultimo ed escludere possibili contaminazioni. Principi e corollari, infatti, per resistere nel tempo non devono soltanto essere giusti (cioè essere sempre verificabili) ma devono anche reggere all’assedio portato dai sistemi antagonisti. Escludere il bisogno di ricorrere a qualsiasi principio e teoria “esterne” (l’autoreferenzialità) è già un buon sistema, ma stigmatizzarle come infondate funziona ancora meglio.

Grazie e in virtù di queste tre “semplici” regole, ogni sistema si garantisce le massime possibilità di propagazione e sopravvivenza, in modo non dissimile da un qualunque essere vivente che è tale in ragione della capacità di modificare l’ambiente che lo circonda a proprio vantaggio.

Dunque, con questo cosa si vuole evidenziare? Che ogni sistema teoretico (filosofia, religione, …) per sopravvivere nei secoli – e non di rado nei millenni – deve adottare alcune strategie che, a prima vista, potrebbero apparire discutibili o poco trasparenti?

No, assolutamente no. L’osservazione neutra e oggettiva esclude la formulazione di qualsivoglia giudizio di valore. Piuttosto questa consapevolezza può spingerci a cercare se esistano sistemi in cui questi principi fondamentali (riduzionismo universale, autoreferenzialità ed esclusionismo) non siano applicati o, almeno, siano meno “rigidi”…

Questa ricerca, tuttavia, non va rivolta per individuare possibili frange di flessibilità in uno piuttosto che in un altro sistema, ovvero ricercarne l’eventuale permeabilità all’impiego di teorie esterne; la vera ricerca dovrebbe invece essere orientata a trovare quei sistemi intrinsecamente aperti all’impiego di ogni possibile teoria utile al raggiungimento degli obiettivi prefissati. Questi sistemi – se esistenti – hanno abbandonato i principi innanzi indicati per adottarne uno diverso, che potremo definire con l’etichetta di “funzionalismo”. Con questa espressione ci riferiamo alla tendenza di valutare uno strumento non in ragione della sua origine o forma privilegiando invece la sua efficacia nel contribuire al raggiungimento di un obiettivo.

Un sistema funzionalista non solo è aperto all’impiego di teorie e di principi ultronei, ma anzi tende a ricercarne il più possibile, andando – di fatto – a costituire un ricco patrimonio cui attingere nel momento del bisogno. Ciò, si aggiunga, non viene fatto con spirito sincretico; questo, infatti, favorirebbe la creazione di un ulteriore sistema di sintesi tra due o più sistemi preesistenti. Viene fatto piuttosto con spirito eminentemente pratico, ovvero al solo scopo di disporre di un numero sempre maggiore di “arnesi” utili.

Infatti, senza la spinta a ricercare l’integrazione di principi e teorie, questo approccio libera, chi lo adotta, dalle ansie conseguenti al bisogno di preservare l’integrità e la coerenza di un sistema a scapito degli altri!

Volendo fare un paragone ardito, mentre i sistemi connotati da riduzionismo universale, autoreferenzialità ed esclusionismo danno origine alla katana giapponese (che per alcuni rappresenta l’apice della ricerca della perfezione materializzata in un raffinatissimo strumento di morte), quelli improntati al funzionalismo danno origine al coltellino svizzero; un multiuso sgraziato e privo di un valore intrinseco, se non quello che sta nella sua capacità di servire in tante e differenti occasioni!

Intendiamoci: io adoro la katana, ne ho studiato la storia e, in qualche misura, anche l’impiego. Tuttavia, se mi trovassi in un bosco, sperduto o nel corso di una banale escursione, preferirei di gran lunga avere con me un pratico coltello multiuso, piuttosto che una meravigliosa spada da samurai.

E dunque esistono sistemi di questo tipo? Si, accanto a una variegata serie di visioni spirituali più o meno rigidamente ingabbiate nei tre principi in argomento, esiste una corrente che fa della praticità il proprio cavallo di battaglia. Mi riferisco al cosiddetto sciamanesimo contemporaneo. Lo sciamanesimo ha origini antichissime e da molti viene considerato essere una sorta di proto-religione.

La sua storia affonda nell’animismo naturalistico in modo non dissimile da altre visioni spirituali di tutto il mondo; tuttavia, a differenza di queste, lo sciamanesimo si è sempre distinto per la sua particolare attitudine alla praticità cioè per la spiccata attenzione al raggiungimento di obiettivi concreti, qui e ora, non rinviati a un’altra vita. Non a caso gli sciamani concedevano i propri servizi per risolvere questioni eminentemente pratiche e prendevano le distanze sia dagli uomini medicina sia dai capi spirituali di una comunità; a loro, infatti, ci si rivolgeva quando non c’erano altre possibilità, vuoi perché i tentativi precedenti erano falliti, vuoi perché ciò che si intendeva raggiungere non era accettabile dalla visione spirituale ufficiale o dalla morale comune della comunità.

Questo distanziamento ha prodotto inevitabili conseguenze. Lo sciamanesimo è stato progressivamente compresso in spazi della conoscenza assai più ristretti che alle sue origini, schiacciato com’è dalle infinite religioni millenarie cui si è prepotentemente aggiunta, nel tempo, la visione materialistica e riduzionista occidentale.

Fatta eccezione per qualche rigurgito animista, rinverdito dalle ormai demodée correnti new age, lo sciamanesimo è rimasto sotterraneo per molto tempo, quasi fino a sparire del tutto. Conservando tuttavia la propria caratteristica dominante – la praticità appunto – lo sciamanesimo ha saputo sopravvivere in diverse forme. Si pensi, ad esempio, a Carl Gustav Jung, uno dei padri della moderna psicologia; questo indagatore della psiche umana faceva ampio uso di alcune tecniche sciamaniche e lo stesso ricorso al modello degli archetipi ricalca significativamente il sistema proto-religioso degli sciamani tradizionali.

Restando appannaggio di pochi, lo sciamanesimo ha faticosamente guadagnato l’interesse di molteplici persone che, tuttavia, per lo più costituiscono nicchie isolate all’interno di un sistema indissolubilmente dominato da esigenze e logiche di potere, dominio, separazione e interesse.

L’innata praticità originale dello sciamanesimo – plausibilmente derivante dall’assenza di un chiaro e codificato sistema nozionistico secolarizzante – sapeva sfruttare al meglio la conoscenza istintiva e primaria della razza umana, così spiegandosi come alcune pratiche, alcuni simboli, alcune visioni siano diffuse e affini praticamente in tutto il mondo.

Come la psicologia aveva ben compreso, riallacciarsi a valori ancestrali non solo consente una comunicazione profonda con lo strato più istintivo, sepolto e potente di ogni uomo e donna, ma lascia un ampio margine di libertà di azione, mancando un sistema connotato dai principi di riduzionismo, autoreferenzialità ed esclusionismo innanzi indicati.

Certo, l’assenza di un sistema condiviso e secolarizzato, la mancanza di guide spirituali comuni e di regole scritte ne hanno indebolito la resistenza rispetto agli altri sistemi spirituali e filosofici che, a conti fatti, possono ben dire di aver vinto fino a oggi la loro battaglia. Lo sciamanesimo, tuttavia, resta per sua natura schivo e rifiuta ogni confronto, consapevole che la propria forza sta nelle profondità umane e non in strumenti di separazione.

Di fatto lo sciamanesimo non è nemmeno interessato al proselitismo e men che meno al suo radicamento; la comprensione dei meccanismi costituenti il minimo comune denominatore dell’uomo (e della vita), libera infatti da esigenze di questo genere, così come dal bisogno di creare e difendere un hortus clausus in cui professare le proprie idee. La libertà che ne deriva favorisce l’inclusione di ogni strumento utile, di ogni pratica efficace, di ogni idea azzeccata con cui venga in contatto lo sciamano. Non si tratta di un relativismo teoretico quanto invece dell’apoteosi del senso pratico, della volontà di trovare una soluzione il più efficace possibile ai singoli casi, nelle singole situazioni.

Ciò tuttavia, contrariamente alle aspettative, non conduce al proliferare di strumenti e sistemi particolarmente differenti gli uni dagli altri; l’attenzione estrema agli effetti di una pratica, infatti, spinge lo sciamanesimo a scendere sempre il più possibile all’interno dell’animo umano, lì rinvenendo il mezzo più idoneo al raggiungimento degli obiettivi prefissati. Ecco, dunque, perché le pratiche sciamaniche mantengono un comune fil rouge in tutti i tempi e in tutto il mondo. Ed ecco anche perché lo sciamanesimo contemporaneo, sgravato (se occorre) dei richiami naturalistici originari, può offrire ancora molto alle donne e agli uomini di questo tempo che, non suoni strano, in realtà non sono così tanto diversi dai comuni e remoti progenitori…

Effetti della meditazione

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Quali effetti produce meditare? Se sei qui la questione ti incuriosisce, magari perché già pratichi meditazione da qualche tempo e vuoi capire cosa ti stia succedendo, oppure perché ne hai sentito parlare in giro ma la questione ancora non ti convince… in ogni caso sei arrivato qui e quindi la cosa, in qualche modo, ti interessa.

Proverò allora soddisfare le tue (legittime) curiosità, magari aiutandoti a scoprire qualcosa che forse non sapevi; iniziamo!

E cominciamo col dire che non parleremo dei “benefici” della meditazione. Si definisce un “beneficio” un effetto positivo di qualche genere e, parlando di meditazione, una delle prime lezioni da apprendere è quella relativa ai cosiddetti “pensieri giudicanti”. Un pensiero giudicante è un pensiero che valuta una questione e la classifica secondo una scala di valori di riferimento. In genere la valutazione è di tipo duale ovvero positivo o negativo, gradevole o sgradevole, bello o brutto e per lo più questi generi di pensiero non sembrano del tutto coscienti e consapevoli. Questi, infatti sembrano affacciarsi spontaneamente nella nostra mente e tra le prime cose da imparare c’è appunto quella di non rimanervi aggrappati. A questo scopo è fondamentale distaccarsi dalla tendenza alla valutazione dualistica di cui dicevamo.

Tratteniamo ciò che ci piace (un bel ricordo, una immagine gradevole) e respingiamo ciò che non ci piace (una situazione dolorosa ad esempio); in entrambi i casi la circostanza ci coinvolge e ci induce a dedicarle attenzione ed energia, tanto per stringerla a noi quanto per allontanarla. Per evitare tutto questo, e lasciare dunque che il pensiero scorra via, dobbiamo interrompere l’atteggiamento giudicante. Dobbiamo soltanto accettare che non tutto ciò che pensiamo sia necessariamente buono o cattivo, quanto piuttosto semplicemente che sia. Smettendo di dare attenzione (ed energia) a questi pensieri essi saranno liberi di andarsene, con ciò producendo i primi due effetti di cui ti voglio parlare.

Prima di tutto, scomparendo dalla tua vista il pensiero, scoprirai che la tua mente può restare in silenzio, magari per pochi istanti, senza assillarti con mille sollecitazioni e un continuo rimuginio. Questo “silenzio” è lo spazio in cui potrai far crescere la tua consapevolezza, scevra delle pressioni emotive e – quindi – libera ed espressiva del tuo vero “io”. Hai mai sentito dire chi medita dire che farlo lo aiuta a essere sé stesso? Quello cui si riferisce è proprio questo…

In secondo luogo, scoprirai che rincorrere tutti quei pensieri è letteralmente stancante, cioè una attività che potremmo definire energivora; smettendo di rincorrerli risparmierai una significativa quantità di energia da dedicare, consapevolmente, a qualcos’altro. Esistono vari tipi di meditazione – lo diremo a breve – ma in genere ogni pratica induce un profondo senso di energia interiore e spesso di rilassamento.

Compreso tutto questo, ci siamo convinti che sia meglio di parlare degli effetti, piuttosto che dei benefici, della meditazione, e quindi proseguiamo senza indugiare oltre.

Parlando della leggerezza riferita dai praticanti è bene chiarire come questa non sia una mera sensazione psicologica ma come abbia salde fondamenta fisiologiche. La sospensione, seppur temporanea, del nefasto influsso emotivo, riduce in un primo momento la produzione del cortisolo. Il cortisolo è un ormone con funzioni di neurotrasmettitore molto importante per la nostra sopravvivenza. Prodotto dal surrene è stato definito come “ormone dello stress” e così etichettato come negativo per la nostra salute. In realtà il cortisolo in sé è assolutamente necessario all’organismo per aiutarlo a superare quelle situazioni in cui serva, ad esempio, disporre di un supplemento di energia. E non c’è bisogno di pensare necessariamente all’uomo preistorico che doveva rischiare quotidianamente la propria vita per la semplice sopravvivenza…

Avete una scadenza professionale stringente e se il vostro ritmo lavorativo restasse nell’ordinarietà certamente non riuscireste a soddisfarla. Fate le ore piccole al computer, bevete caffè e riducete le ore di sonno. Il livello di cortisolo si alza e da indicazioni al vostro corpo per produrre maggiori quantitativi di glicemia da distribuire ai vostri organi interni per mezzo del sangue. Nonostante le molte ore di lavoro, e le poche di riposo, siete “carichi” e non avvertite la stanchezza proprio grazie al cortisolo. Quindi il cortisolo ci serve, solo che spesso ne produciamo più di quanto sia realmente necessario proprio perché avvertiamo una condizione di stress continuo. Il lavoro, il traffico, la famiglia, il conto in banca…tutto sembra talvolta coalizzarsi contro di voi e le giornate si trasformano in una escalation di tensione fino a sfociare in esplosioni irose magari per futili motivi; non siete psicopatici, è soltanto l’effetto del cortisolo che si va continuamente accumulando nel vostro organismo. Meditare, cioè raggiungere anche per brevi periodi, quello spazio di silenzio interiore, interrompe questo circolo vizioso, sospendendo o almeno rallentando la produzione di cortisolo. L’effetto è facilmente intuibile: vi ritroverete più calmi!

Ma andiamo avanti. Sospendendo la produzione del cosiddetto ormone dello stress darete la possibilità al vostro organismo di risentire degli effetti di altri neurotrasmettitori ad esso antagonisti. Funziona così: certi neurotrasmettitori possono essere immaginati come delle chiavi che, quando entrano in una toppa (cellule bersaglio dei singoli organi), la occupano e impongono un determinato movimento alla serratura (reazione fisiologica). La stessa toppa, cioè le stesse cellule ricettrici degli organi, possono ricevere una sola chiave alla volta. Quindi se questa è occupata dal cortisolo non può ricevere – per esempio – melatonina e serotonina.

Se il primo è stato definito l’ormone dello stress, queste possono essere indicate come gli ormoni della calma e della serenità. La melatonina risulta fondamentale per regolare – tra il resto – il ciclo veglia/sonno, consentendoci di “dormire bene”. La serotonina è invece responsabile di molteplici effetti sul nostro umore, stimola la memoria, la creatività e in molti la chiamano “ormone della felicità”.

Tornando alla nostra meditazione, quando mediti favorisci la liberazione di alcune delle toppe che in precedenza erano occupate dal cortisolo e lasci che possano essere occupate da melatonina e serotonina. Gli effetti? Una calma profonda, anche in situazioni di grandissimo stress, che – qualora la pratica meditativa sia costante nel tempo – non è più una fase estemporanea e provvisoria, ma diventa un vero e proprio tratto caratteriale.

E con questo veniamo a un altro effetto della meditazione, tirando in ballo la cosiddetta neuroplasticità celebrale. Cos’è? Con questa definizione ci si riferisce alla capacità del cervello di modificarsi nel tempo. In che senso modificarsi? Per molto tempo si pensava al cervello come a un fittissimo reticolo di neuroni lungo i quali correvano quegli impulsi elettrici e chimici che siamo abituati a chiamare pensieri, ricordi, emozioni. La rappresentazione che si aveva del cervello ha portato alla creazione dei microcircuiti e dei chip, la cui microscopica tessitura conduttiva determina i possibili percorsi degli impulsi elettrici che fanno funzionare i nostri pc, i telefoni o la lavatrice. Un’idea, questa, piuttosto meccanicistica e comunque di impronta fortemente analogica, che affliggeva anche il nostro modo di percepire il cervello.

Col tempo, tuttavia, si è scoperto che la flessibilità del nostro cervello (soprattutto della sua parte di evoluzione più recente) è molto maggiore di quanto si pensasse. Esperienze reiterate o particolarmente incisive sono capaci di alterare fisicamente il modo di funzionare del cervello; il bello è che compreso ciò ci scopriamo dotati di una facoltà prima sconosciuta. Siamo diventati consapevoli di essere più permeabili agli stimoli ma, al contempo, anche più capaci di determinare il modo in vogliamo che il nostro cervello lavori. La meditazione è uno degli strumenti più efficaci in questo senso.

La pratica costante nel tempo produce effetti fisici nel vostro cervello, abituandolo a routine e reazioni più confacenti alle vostre esigenze e, soprattutto, meno determinate da ciò che vi circonda e dal vostro lato emotivo, inconsapevole e incontrollato. È per questo motivo che chi medita con continuità acquista maggiori capacità di autocontrollo e calma: doti utilissime ma soprattutto nei momenti più difficili, in cui scelte determinate dall’ansia o dal nostro lato inconscio potrebbero rivelarsi assai funeste.

Si, ok, abbiamo capito, meditare produce parecchi risultati, ma come si fa esattamente e quanto tempo dobbiamo dedicare a questa pratica per sperimentare questi meravigliosi effetti (per carità non diciamo benefici sennò ti arrabbi)?

Allora, in termini di tempo da dedicare l’unico vero suggerimento utile è di lasciare che sia il vostro corpo a fornirvi le indicazioni necessarie. È possibile iniziare anche con una manciata di minuti (vedi qui un esempio di meditazione in 5’) per arrivare a molto, molto di più. Se la pratica viene fatta con costanza e senza sforzi si prolungherà da sola, perché sentirete sempre più il bisogno di ritrovarvi in quello spazio di silenzio e libertà.

Circa invece come si mediti occorre spendere qualche parola in più. Questo perché esistono molteplici tipologie di meditazione, risalenti a scuole di pensiero più o meno antiche, ciascuna delle quali si esprime in tecniche ed effetti differenti.

Una meditazione fortemente tradizionale è quella zen, di origine buddista, in cui l’attenzione viene focalizzata sul respiro e sulla staticità della posa. Poi c’è la classica meditazione vipassana, anch’essa di origine buddista, in cui l’attenzione va concentrata su un oggetto reale o immaginario. Non è possibile dimenticare la meditazione trascendentale

Trascendentale, zen, vipassana, mindfullness, visualizzazioni e altro ancora…le forme di meditazione possono essere ispirate tanto alla massima staticità quanto a un grande dinamismo.

A questo si aggiunga che alcune forme di meditazione possono risultare più adatte di altre per specifiche finalità. Ad esempio, chi pratica arti marziali potrebbe trovare maggiore utilità (o assonanza) con la meditazione di tipo zen, mentre chi fa nuoto, o apnea, troverebbe certamente utilità con la pratica vipassana. Allo stesso modo chi si senta lontano dalle atmosfere mistiche e orientaleggianti può efficacemente rivolgersi alla mindfullness, mentre chi sente di dover fare i conti con pesi emotivi irrisolti potrebbe praticare con successo forme di meditazione e visualizzazione hoponopono.

In tutti i casi, ciò che accomuna ogni forma di meditazione è la posizione – metaforicamente parlando – che assume il praticante nei confronti di sé stesso e di ciò che lo circonda. Per descrivere in poche parole cosa significhi meditare trovo comodo rifarsi alle parole di Juddu Krishnamurti, capace di coniugare la sensibilità propria dell’induismo con la praticità del mondo occidentale. Per Krishnamurti meditare vuol dire “semplicemente” dedicare ogni attenzione all’osservazione, di un oggetto come del proprio respiro o di una immagine mentale. Secondo l’illuminato filosofo indiano, il solo porci in una condizione di osservazione non giudicante (ricordiamo quello che si diceva proprio all’inizio in proposito?) è una circostanza di per sé stessa capace di “cambiare le cose” e “fare la differenza”.

Osservare senza partecipare, implica – comunque – incidere sulla realtà immanente. Allo stesso risultato giungeva anche la fisica grazie a scienziati dalla mente incredibilmente aperta come David Bohm (che amava dialogare con Krishnamurti) ed Erwin Rudolf Josef Alexander Schrödinger; è a quest’ultimo che, per lo più, si deve la teorizzazione del ruolo dell’osservatore nei confronti della materia.

Come nel suo celebre paradosso (il famoso “gatto di Schrödinger) l’osservatore – cioè noi – è in grado di determinare lo stato del povero felino che, fino al momento in cui non lo osserviamo, ha le stesse probabilità di essere sia vivo sia morto.

L’osservazione, quindi, definisce la realtà per come la percepiamo e la meditazione ci fornisce gli strumenti e le tecniche necessarie per riconoscerla tanto nella sua immanenza quanto nella sua trascendenza.

Allora, ancora convinti che meditare non offra dei benefici?

Cristallo-Pratica (3)

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Tre possibili impieghi concreti

Bene, abbiamo visto perché pietre e cristalli sembrano avere effetti su di noi [link primo articolo].

Abbiamo anche compreso che ciascun minerale produce i propri effetti in modo differente e che sta a noi impiegare lo strumento più adatto ad ogni situazione [link secondo articolo]. Sbagliando cristallo sarebbe infatti un po’ come cercare di usare delle pinzette di precisione per infilare un chiodo; potremmo anche farcela, ma i rischi di farsi del male sono decisamente troppo alti.

È dunque oramai chiaro come il ricorso alla cristallopratica non possa prescindere da due distinti elementi. Da un lato abbiamo l’approfondita conoscenza del mondo minerale, come sarebbe ovvio, ma dall’altro si trova la necessaria consapevolezza di se stessi. Ricorrere agli influssi di un minerale nel modo sbagliato, o semplicemente ponendolo nel posto sbagliato, può infatti – nella migliore delle ipotesi – privarlo delle sue stesse capacità e – nella peggiore – aggravare una situazione critica o favorirne il sorgere!

In questa occasione, proveremo allora a illustrare tre tra i possibili impieghi della cristallopratica. Per fare tutto ciò proveremo quindi a passare dalla teoria alla pratica e, a questo scopo, ricorrerò all’aiuto di tre casi concreti.

Partiamo dal metodo di impiego tra i più diffusi, ovvero come monile, sotto forma di bracciale, cavigliera, collana o semplicemente portato nelle tasche della giacca o del pantalone. È questo un impiego davvero antichissimo; per lo più i cristalli vengono usati alla stregua di talismani, anche se in realtà il loro utilizzo in questa forma è più simile a quella di un amuleto.

Talismano e amuleto, per quanto oggi siano termini impiegati quasi come sinonimi, non sono la stessa cosa. Ai primi (talismani, dal greco tèlesma e dal persiano tilism) si riconosce un potere “magico” tanto per portare fortuna a chi lo indossi quanto per allontanare la sfortuna o altri sgradevoli influssi. Per quanto possano essere sia naturali (pietre, cristalli, vegetali o animali) il più delle volte recano impressi segni o simboli che gli conferiscono o ne aumentano il potere. Diversamente gli amuleti (la cui etimologia è più incerta, forse derivante dal verbo latino amolior, ovvero tenere lontano, o dal greco amulon, un cibo talora impiegato nelle cerimonie funebri o che hanno a che fare con il mondo dei trapassati) sono qualcosa di molto più personale, per lo più da conservare senza che venga mostrato; in questo senso alcuni tatuaggi (o semplicemente tracciati sulla pelle), impiegati in certe aree del sud est asiatico e della Polinesia, ma anche dell’africa centrale e del continente australiano, attengono proprio al rapporto con entità superiori e assolvono a funzioni protettrici. I minerali, e in particolare i cristalli, sono in genere ottimi amuleti. Il loro uso è documentato praticamente in ogni cultura pre-scientifica. Basti pensare, ad esempio, che molte tradizioni sciamaniche non solo riconoscono ai cristalli specifici poteri ma, oltre a indossarli o impiegarli per aumentare l’efficacia di altri strumenti, ne inseriscono piccoli frammenti sotto pelle, così da interiorizzarne le proprietà in modo permanente…

Tornando al nostro esempio pratico, quando Anna (nome di fantasia ovviamente) decise di acquistare e indossare un bel bracciale di occhio di falco – pietra che aveva scelto a ragion veduta e dopo un adeguato approfondimento – si accorse che questo aveva su di lei effetti inattesi e, in realtà, poco piacevoli. Infatti, dopo una iniziale sensazione positiva, iniziò ad avvertire un fastidioso senso di stanchezza mentale, faticando a concentrarsi e avvertendo una spossatezza cui non riusciva ad attribuire una causa specifica. Ipotizzando che il recente acquisto potesse aver qualcosa a che fare con tutto questo riferiva a tal proposito: “Con il bracciale ho notato qualche differenza all’inizio, poi più marcata nella seconda settimana che lo mettevo e in cui mi ha aiutata a non focalizzarmi sul singolo problema ma avere una visione più di insieme e più concentrata. Fino ad arrivare alla fine della scorsa settimana, in cui mi sentivo emotivamente molto stanca e quasi ‘svuotata’, percepivo un senso di apatia che in genere non mi caratterizza“.

Analizzando insieme la situazione ci rendemmo conto che avrebbe potuto beneficiare più efficacemente degli effetti di questa bellissima pietra ricorrendo ad alcune metodiche. In primo luogo, è stato necessario stabilire dei limiti temporali al suo utilizzo; l’occhio di falco infatti, specie per persone molto recettive, può essere fin troppo energico e favorire indesiderati disequilibri. A ciò si è aggiunta anche una periodica pulizia e ricarica del bracciale, nel caso specifico per mezzo di una piccola drusa di ametista. Da quel momento S. riesce a sfruttare al meglio il suo bracciale, ne comprende meglio le proprietà e – per così dire – il carattere, lo rispetta e ne trae ogni beneficio possibile!

Ma la nostra relazione con i cristalli può essere anche più dinamica…

Qualche tempo fa ho avuto la fortuna di offrire il mio aiuto a Beatrice (nome indicato solo in rispetto dell’ordine…alfabetico!). Beatrice era già consapevole della propria particolare sensibilità agli influssi del mondo minerale di cui, tuttavia, beneficiava in modo un po’ passivo, traendo quindi meno effetti di quanto avrebbe potuto. Era molto affezionata a una pietra della sua personale collezione, su cui proiettava eccessiva energia, in tal modo precludendosi altre esperienze altrettanto positive. Dopo averne parlato abbiamo deciso che la soluzione migliore sarebbe stata che fosse il cristallo a scegliere lei, e non il contrario. Ecco cosa racconta a questo proposito:” All’inizio ho scelto di meditare con il cristallo fumè che avevo trovato XXXXX : l’ho scelto con la testa, come un predestinato. Dopo due tentativi durante i quali non riuscivo a condividere e la meditazione mi pareva sterile, mi sono affacciata sulla mia collezione di ialini e mi sono chiesta: come cavolo faccio a selezionarne uno fra tanti? In quel momento non ho avuto dubbi: ho saputo qual era. Devo raccontarti che da allora si è aperto un nuovo mondo: ci siamo studiati reciprocamente e io fissavo lo sguardo secondo il tuo consiglio. In verità duravo pochissimo, perché gli occhi mi bruciavano come se guardassi il sole. Allora li chiudevo e la meditazione aveva inizio. Sto imparando a conoscere il suo linguaggio, mi fido delle intuizioni e dei pensieri che mi guidano. Le sensazioni nel corpo ora sono una mappa”.

Questo aneddoto è ricco di spunti di riflessione ma, per il momento, due di essi appaiono essere i più rilevanti e cioè la scelta del cristallo fatta in modo intuitivo e non razionale e la specifica pratica consigliata. Partiamo da quest’ultima. Per Beatrice, in quel momento, era utile uno strumento che la supportasse nell’analisi interiore, di un faro che illuminasse quelle parti del suo corpo fisico ed energetico che avevano bisogno di essere illuminate. A questo scopo si può rivelare efficace una particolare tecnica di meditazione con i cristalli, ispirata per lo più dalla meditazione trascendentale di tradizione buddhista. si tratta di porre la pietra a poca distanza da dove ci troviamo; la distanza può variare a seconda delle sue dimensioni e… della nostra miopia! Dopo una necessaria fase di stabilizzazione grazie all’uso consapevole del respiro, il praticante viene invitato a focalizzare la sua attenzione sul cristallo, cercando di coglierne ogni sfumatura di colore, trama della superficie e forma. Sempre restando osservatori esterni al cristallo, senza quindi identificarsi con esso, quando il praticante sente di avere una mappa mentale della pietra sufficientemente dettagliata viene invitato a cogliere la sua natura intrinseca, la sua essenza interiore. Si tratta dunque di “guardare negli occhi” la pietra e di porsi in ascolto. È questo un ascolto silenzioso, non giudicante e distaccato. È possibile allora che l’attenzione del cristallo si concentri su alcuni aspetti del nostro corpo materiale e immateriale; l’attenzione del praticante sarà pertanto rivolta alle aree osservate dal cristallo, al fine di approfondire – con questo o altri strumenti – quelle bisognose della nostra attenzione consapevole. Il cristallo scelta da Beatrice, poi, un quarzo ialino, è particolarmente adatto alla introspezione finalizzata a far luce su noi stessi, come è infatti accaduto!

L’altro aspetto interessante che emerge da questo aneddoto, poi, è come sia avvenuta la scelta più efficace del cristallo in quel momento adatto. Infatti, dopo gli insuccessi della scelta razionale, B. si è lasciata guidare dal suo lato istintivo; quest’ultimo, meno sottoposto al controllo dell’ego (ma anche di quello culturale e delle credenze personali) è più sensibile alle sollecitazioni energetiche provenienti dal mondo animale, vegetale e, appunto, minerale. Se invece si fosse accanita nel ricorrere di un altro cristallo gli effetti non si sarebbero visti e, anzi, a lungo andare anche il rapporto positivo con quella pietra pur tanto amata si sarebbe potuto incrinare.

Ma ciò che a noi interessa, in questo specifico momento, è concentrare l‘ attenzione sulle potenzialità nascoste nel fantastico rapporto che i cristalli possono avere con la nostra parte meno razionale, intuitiva e istintiva. A questo fine mi servirò del caso di Carlo (ebbene si, anche questa volta il nome è inventato). Carlo attraversava una fase di disorientamento. Per quanto fosse un professionista di successo e avesse una appagante vita sentimentale, sperimentava una sensazione difficilmente spiegabile, ed ecco quanto diceva: ”Non so come spiegartelo ma mi sembra di vivere una storia già scritta. Non sono un tipo a cui dispiacciono le sorprese e le nuove avventure. Faccio immersioni e speleologia e sono molto attivo. Tuttavia sempre più spesso avverto la sensazione di recitare un ruolo. Mi piace come sono e quello che faccio ma spesso è come se mi mancasse qualcosa e seguissi una strada già prevista”. Si trattava probabilmente di qualche tipo di disarmonia a livello energetico e spirituale…

Nonostante Carlo amasse scendere in profondità, tanto in acqua quanto in grotta, non aveva mai avuto esperienze con la cristallopratica e, conseguentemente, non disponeva di minerali con cui sperimentare qualche esercizio specifico. Inoltre, in tempi di pandemia, anche ricorrere a pratiche olistiche era complesso e quindi abbiamo optato per una strada alternativa ma altrettanto efficace. Abbiamo visto infatti che i cristalli esplicano i propri effetti grazie alle loro caratteristiche fisiche intrinseche ma anche grazie a ciò che noi percepiamo di essi, al tatto e alla vista. Sfruttando questa facoltà C. è stato invitato a selezionare in modo del tutto intuitivo alcuni cristalli, preventivamente selezionati tra molti; la sua inesperienza con il mondo minerale è stata quindi un potentissimo alleato, consentendogli di scegliere i cristalli in modo assolutamente istintivo e irrazionale, associandoli ad alcuni punti specifici del proprio corpo. In altre parole il suo intuito gli ha consentito di esaltare la risonanza di certi minerali con alcune funzioni fisiologiche ed energetiche, così aiutandolo a identificare con maggiore precisione i possibili obiettivi su cui lavorare. Cioé ci si è avvalsi propria del rapporto energetico tra il nostro corpo e i cristalli per individuare le aree di intervento!

Dopo pochi giorni dall’uso di rimedi mirati Carlo ha dimostrato di essere non solo più concentrato ma soprattutto più consapevole delle piccole scelte quotidiane, senza stravolgere il proprio cammino ma ora percorrendolo in modo molto più sicuro e aperto al meraviglioso.

Insomma, questi aneddoti sono – spero – un efficace esempio di quanto i minerali possano diventare nostri amici, confidenti, complici e alleati, a condizione di essere consapevoli di noi stessi e del loro utilizzo!

Cristallo-Pratica (2)

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Tratto da un dialogo realmente avvenuto…

« L’ametista mi calma e il diaspro rosso mi da energie giusto? » lui

« …dipende, forse sarebbe meglio che tu comprendessi più a fondo le origini della situazione che stai sperimentando prima di affidarti a qualsiasi tipo di rimedio… » io

« Ma ho letto che un ciondolo di ametista è un ottimo rimedio per la mia ansia! Non è così? » lui

« … dipende… » io

Già, dipende! L’impiego dei cristalli nelle pratiche olistiche è diventato – spesso – qualcosa che somiglia molto da vicino agli oroscopi che si leggono su tanti giornali “d’informazione”. La possibilità che l’universo, e quindi gli astri, possano interagire con le faccende umane è questione antica, ma che un trafiletto di poche righe possa essere adatto a tutte le persone nate sotto quello specifico segno è davvero una previsione assai ottimistica! Per la cristalloterapia si assiste spesso a uno scenario simile, purtroppo.

Le cose tuttavia, come non di rado accade, sono un pochino più articolate.

Già abbiamo compreso i motivi fisici alla base delle interazioni con i cristalli (“Cristalloterapia: cos’è, a cosa serve e come funziona” e “Cristalloterapia…principi fisici”), ed è dunque giunta l’ora di esplorare un po’ più a fondo la questione.

Ricorderemo che due sono i principali fattori che attribuiscono ai minerali le proprie capacità, il loro valore simbolico (che può dipendere da fattori storici, culturali e personali) e le loro proprietà intrinseche; dunque ora proveremo a esplorare questo aspetto che può diventare determinante per un uso efficace e consapevole dei cristalli.

Da questo punto di vista tre sembrerebbero essere gli aspetti ad influire maggiormente sulle capacità di un minerale e cioè la sua morfogenesi, la sua composizione fisica e la percezione che ne abbiamo. Queste particolarità rendono i cristalli molto più comprensibili e coerenti con diverse discipline millenarie, come lo yoga, la medicina tradizionale cinese, l’ayurveda, il tantrismo ed altre ancora.

Partiamo dalla prima delle caratteristiche innanzi indicate; la morfogenesi di un minerale attiene al risultato dei processi geologici che lo hanno generato e prendiamo in considerazione uno dei minerali più affascinanti e diffusi, il cristallo di rocca. Questo, meglio definito come quarzo ialino, appartiene al gruppo minerali degli ossidi e in particolare dei quarzi tra cui si distingue per la sua particolare trasparenza davvero simile al vetro. Il quarzo è un elemento comune delle rocce magmatiche intrusive acide (come il granito ad esempio) ma si trova anche abbondantemente in quelle sedimentarie (come l’arenaria).

Dal punto di vista della composizione fisica i quarzi presentano una struttura cristallina trigonale, costituita da molteplici tetraedri uniti tra loro per i quattro vertici formando delle spirali orientate a destra o sinistra. La sua forma (habitus) è un prisma esagonale con ai vertici le facce di due romboedri disposti in modo da formare una bi-piramide a base esagonale.

Infine il quarzo ialino si presenta come un cristallo immediatamente riconoscibile per il senso di purezza che sa trasmettere anche grazie alla sua singolare trasparenza. Una volta raccolto dall’espositore potremo anche apprezzarne il peso, la freschezza e la levigatezza, percependo un notevole equilibrio complessivo.

Bene, alla luce di quello che abbiamo detto poc’anzi, ciascuno di questi elementi contribuirà a conferire al cristallo di rocca le sue pregevoli proprietà.

Colore, origini geologiche e composizione fisica si tradurranno in un flusso vibratorio dalle armoniche complesse e profondamente articolato. Volendo sintetizzare, siamo di fronte a una pietra che può essere di origine tanto lavica quanto sedimentaria, quindi prossima tanto agli elementi yang (fuoco) quanto a quelli yin (acqua). Ha un habitus piramidale a base triangolare, una delle forme più solide in natura ma anche che meglio rappresentano il collegamento tra terra e cielo. Al tatto è freddo e davvero liscio ma sa stupire per la sottigliezza dei suoi profili, affilati ma al contempo fragili.

Per comprenderne i possibili effetti su di una persona, tuttavia, ciascuna delle sue caratteristiche andrà messa in relazione con la situazione specifica di quest’ultima, osservata, ad esempio, attraverso una o più delle discipline richiamate. Un operatore ayurvedico – pur non impiegando ordinariamente questi strumenti – potrebbe trovare utile ricorrere alle proprietà del cristallo di rocca per intervenire su una o più delle energie elementali presenti nella persona (etere, aria, fuoco, acqua e terra). Allo stesso modo un praticante della MTC potrebbe affidarsi alle componenti maschili e femminili per riportare equilibrio il qi del soggetto. Un conoscitore dello yoga o del tantrismo sarebbe portato ad impiegare il quarzo ialino per agire su uno o più specifici centri energetici, sfruttandone per esempio le vibrazioni energetiche nello spettro del visibile, ovvero il colore.

A questa già evidente complessità si aggiunga che i minerali posseggono un raggio di azione limitato nello spazio; ciò significa che anche la loro collocazione può essere determinante ai fini dell’efficacia dell’azione! Anzi, possiamo dire che mettere il cristallo giusto nel posto sbagliato non solo lo renda inefficace bensì lo trasformi potenzialmente in una causa di effetti indesiderati, se non negativi. E questa considerazione vale sia che si ricorra ad azioni sui dosha (carattere energetico predominante per l’ayurveda), sia che si agisca sui meridiani (canali energetici della mtc) sia, infine, che si intenda intervenire sul funzionamento dei chakra (centri energetici dell’induismo).

Iniziamo ora a comprendere perché sentiamo talora dire, ad esempio, di portare quel determinato cristallo in un punto piuttosto che in un altro del corpo. Questa indicazione, tuttavia, deve essere intesa alla stregua degli oroscopi generalisti cui si faceva riferimento nelle prime righe di questa breve riflessione. Se infatti ciascun cristallo può possedere uno o più luoghi elettivi, ovvero con cui manifesta una particolare sintonia generale, non esiste un punto in sé sbagliato per posizionarlo; casomai di sbagliato – cioè non desiderato – ci potrà essere solo l’effetto che esso produce!

Per fare un esempio di scuola, porre una tormalina nera all’altezza dei chakra superiori viene in genere sconsigliato, ma possono esservi circostanze in cui questo sia l’intervento proprio più adatto alla situazione specifica. Allo stesso modo il diaspro rosso spesso è associato al primo o al secondo chakra ma, in determinate situazioni, potrebbe produrre risultati indesiderati. Non si tratta tuttavia di effetti contrari alle aspettative, in quanto queste devono essere fondate sulla piena conoscenza della pietra impiegata nonché sulla comprensione del caso specifico a cui la si vuole applicare.

A questo scopo, va sempre considerato che l’obiettivo da ricercare, per il benessere reale di una persona è quello di favorirne l’omeostasi energetica e funzionale; si tratta della condizione di massimo equilibrio possibile, in cui l’energia scorre fluidamente, realizzando una armonia complessiva tra la dimensione materiale e immateriale della persona.

In questo senso si comprende allora la necessaria attenzione nell’uso della cristalloterapia. L’impiego di un minerale in un punto del corpo, piuttosto che un altro altrove, produrrà sì il medesimo effetto energetico che gli è proprio, ma i risultati pratici – cioè il feddback sperimentato dalla persona – potranno essere significativamente differenti in ragione delle sue condizioni specifiche.

In altre parole, se stiamo considerando la possibilità di impiegare alla leggera alcuni rimedi cristalloterapici tanto “male non fa”, forse è meglio che desistiamo da questa intenzione. Con queste premesse il risultato migliore cui possiamo aspirare, infatti, sarà di una loro inefficacia, fatto salvo il possibile effetto placebo.

Se invece volessimo approfittare a pieno dell’aiuto dei rappresentanti del mondo minerale – efficacissimi alleati e talvolta persino complici – allora impariamo ad impiegarli nel modo più accurato possibile, unendo a questa preliminare conoscenza una approfondita e preliminare comprensione delle proprie condizioni.

Infine una riflessione conclusiva sulla cristalloterapia in generale. In considerazione della sua natura olistica, della sua necessaria complementarietà alla medicina ufficiale nonché, soprattutto, dell’intrinseco valore empirico delle nozioni che ne derivano, sarebbe preferibile riferirsi ad essa con il termine di cristallopratica, seguendo così la strada già segnata da altre discipline nel recente passato.

Cristallo-Pratica

[ascolta questo articolo, durata 24’44”]

E’ un bluff oppure qualcuno mi spieghi perché funziona…

Cristalloterapia, ovvero cura attraverso o per mezzo dei cristalli (minerali); funziona davvero o si tratta di un retaggio della cultura pre-scientifica ri-vivificata da visioni new age e animistiche?

Qui non si tratta di capire se la cristalloterapia possa essere considerata una valida alternativa a tecniche di cura tradizionali; se si soffre di una qualsiasi patologia è necessario – in ogni caso – un serio confronto con uno specialista medico, prima di approfondire, se del caso, altri percorsi. Si tratta piuttosto di comprendere se tra l’uomo e il mondo minerale possa realizzarsi un qualche tipo di interazione.

Mettiamola così, qualche tempo fa, discutendo con una persona molto cara, mi sono reso conto che – per quanto ella accogliesse alcuni dei miei suggerimenti per migliorare il proprio benessere psicofisico di certi non ne comprendeva appieno il reale funzionamento. Trattandosi peraltro di una persona di particolare cultura e intelligenza ciò ostacolava non poco l’efficacia di alcuni degli strumenti suggeriti.

Nella fattispecie si discuteva dell’uso di un ciondolo di unakite, cui la persona in questione non riconosceva alcuna capacità di aiuto. Assuefatti al meccanicismo della cultura dominante, stentiamo purtroppo talora ad accogliere altre possibilità. Infatti nonostante pochi tra noi comprendano effettivamente come funzioni l’aspirina, l’investitura di farmaco “ufficiale” attribuisce a pochi grammi di acido acetilsalicilico, sodio bicarbonato e poco altro, infinite potenzialità taumaturgiche. I farmaci sono così diventati, in un certo qual modo, le pozioni magiche dei nostri tempi, sostituendosi a talismani e altri oggetti di potere.

Ecco quindi come un modesto frammento di turchese – ad esempio – da pietra magica e ricca di significati per molte culture, oggi può diventare solo un gradevole ornamento, al più dallo stile etnico e con qualche eco spirituale.

Tuttavia ciò che rappresentava questa pietra per i nativi americani, per restare nell’esempio, è intrinsecamente immutato e resta solo a noi la facoltà e la responsabilità di rientrarne in possesso. E, per fare ciò, a un operatore olistico  dei nostri giorni, interessato tanto a comprendere simili temi quanto a essere in grado di spiegarli efficacemente ai propri clienti, si può suggerire di approfondire un po’ di più le dinamiche profonde dell’iterazione energetica, piuttosto che iniziare a parlare immediatamente di energie sottili, corpo aurico o altro ancora; tale atteggiamento, in realtà, non farebbe che ricalcare l’abuso del gergo tecnico già invalso in pressoché tutti i campi della nostra attuale cultura, fin dai tempi del latinorum di manzoniana memoria, e assai probabilmente pure prima…

Proviamo invece ad affrontare questo tema in modo razionale e, per fare questo, occorre prima compiere una piccola digressione sulla nozione di materia. Già perché nessuno di noi potrebbe dubitare che un pezzo di quarzo, o di qualche altra pietra più esotica, siano qualcosa di materiale.

L’immagine corpuscolare della materia ha origini antichissime. L’idea che tutto sia composto da qualche genere di materia minuscola si deve a Leucippo di Mileto (prima metà del V secolo a.C.) e al suo allievo più famoso, Democrito di Abdera (460-3700 a.C.). Da qui nasce, secondo alcuni, ogni forma di riduzionismo scientifico.

Tuttavia non va dimenticato che in pari epoca si comprese che in un universo composto da atomi di dimensioni infinitesimali, il vuoto fosse importante quanto il pieno. Aristotele di Stagira parla di “essere” e di “non-essere” (anticipando con una intuizione geniale, seppur in buona misura plausibilmente inconsapevole, concetti avanzatissimi come quello dell’anti-materia) e poco più tardi Diogene Laerzio (180-240 a.C.) riferisce, nel suo “Vite dei filosofi”, come per Democrito e Leucippo i “princìpi di tutte le cose sono gli atomi e il vuoto, e tutto il resto è apparenza soggettiva”.

In realtà, dal punto di vista logico, ancor prima che fisico, pieno e vuoto possono esistere solo come una equilibrata antinomia; senza l’uno non potrebbe esservi l’altro infatti. Una visione dualistica che ha tanti risvolti, noti e meno noti, in tanti ambiti.

Tuttavia l’horror vacui ha sempre atterrito le menti umane, persino quelle più illuminate; non stupisca quindi che lo stesso Aristotele, astronomo e osservatore della natura di eccezionale livello, allora come oggi, stentasse ad accettare il concetto di vuoto, perennemente alla ricerca della perfezione universale come espressione di somma armonia, equilibrio e simmetria.

Nel tempo si è però “visto” che effettivamente la materia è composta da particelle piccolissime, appunto definite atomi. Questi, a loro volta, sono costituiti da un nucleo – fatto di protoni e neutroni – intorno al quale “ruota” uno o più elettroni; si tratta, nell’immaginario collettivo, di microscopici sistemi solari in cui il nucleo di particelle positive e privi di carica (protoni e neutroni) sostituiscono il sole, mentre gli elettroni diventano i pianeti che vi ruotano attorno. Le virgolette impiegate tuttavia qui sono d’obbligo… infatti l’osservazione del funzionamento degli atomi mise presto in evidenza come gli elettroni non seguissero orbite predefinite come Newton ci aveva abituato per i corpi celesti. La loro traiettoria appariva piuttosto erratica e imprevedibile e la loro caratteristica fondamentale era invece la distanza che gli elettroni mantenevano dal nucleo. Ridurre a poche righe un tema che ha appassionato i fisici di tutto il mondo per decenni, portandoli a rivoluzionare profondamente la comprensione della materia, è – molto probabilmente –  davvero imperdonabile; tuttavia nel nostro breve cammino concentreremo la nostra attenzione sull’ultima delle caratteristiche innanzi accennate e cioè la distanza di un elettrone dal nucleo.

Ma quanto dista un elettrone dal nucleo? Beh, invece di parlare di misure dell’ordine di 10-11 metri (questa è il raggio tipico di una traiettoria di un elettrone attorno al nucleo) forse sarebbe più efficace fare un esempio pratico con oggetti di uso più comune.

Se dunque potessimo ingrandire un nucleo atomico fino a fargli assumere le dimensioni di una mela, tipicamente dal diametro dai quattro ai sei centimetri, dovremmo spostarci di circa un chilometro prima di incontrare la prima orbita utile per i nostri elettroni; immaginando così un atomo particolarmente semplice come l’idrogeno – forse non a caso l’elemento più diffuso su scala universale – scopriremmo che è composto dalla nostra mela (il nucleo) e, a circa un chilometro di distanza, da un solo elettrone che, per la cronaca, è talmente piccolo che si stenta a riconoscerne sia dimensioni sia massa. Si tratta dunque di uno spazio enorme occupato da pochissima materia. Il rapporto tra pieno e vuoto infatti è pari è pari a 10-12, ovvero a un milionesimo di milionesimo!

Dunque la materia è per lo più “vuota”… non deve stupire se questa considerazione lascia sbigottiti i nostri ragazzi che si affacciano alla fisica; si è infatti impiegato un bel po’ di tempo per comprendere come fosse allora possibile che due pezzi di materia si respingessero reciprocamente venendo a contatto, piuttosto che fondersi a livello atomico, come l’enormità dello spazio vuoto potrebbe indurre a pensare.

La soluzione fu trovata da Max Planck con una scoperta che, nel 1918, non per nulla gli valse il Nobel per la fisica e che è riassumibile dalla sua famosa affermazione “La materia non esiste, tutto è vibrazione!”; una intuizione davvero illuminata, come si capirà alla luce delle scoperte successive a quelle della fisica quantistica…

Se, infatti, la forza nucleare forte è responsabile della tenuta dei nuclei (cioè fa sì che protoni e neutroni non si sfaldino, pur in assenza di iterazioni elettromagnetiche) la solidità degli atomi nel loro complesso si deve all’elettromagnetismo stesso. Quelle “orbite” degli elettroni cui prima si faceva riferimento sono in effetti dei veri e propri campi elettromagnetici. L’idea che gli elettroni definiscano, insieme alla carica dei protoni, il campo elettromagnetico degli atomi è fondamentale per la comprensione della materia e delle iterazioni subatomiche. In termini esageratamente semplificati, un campo può essere definito come l’insieme dei valori che una grandezza può assumere in ogni punto di una determinata regione dello spazio. Nel nostro caso, quell’area posta a circa un chilometro dalla mela e sottile quanto può esserlo solo un elettrone, è il campo elettromagnetico del nostro atomo di idrogeno ingrandito.

La nozione di campo diventa indispensabile per comprendere le dinamiche tra oggetti complessi, tra cui le iterazioni diventano così numerose e fitte da diventare come la trama di un tessuto compatto, piuttosto che singoli filamenti indipendenti l’uno dagli altri.

Immaginiamo dunque un campo non come un’orbita, lungo la quale corre un corpo fisico, quanto piuttosto come l’insieme dei valori elettromagnetici che l’elettrone può assumere in ogni punto di quella porzione di spazio. Per evitare il decadimento conseguente all’emissione di una radiazione elettromagnetica, che porterebbe al collasso degli elettroni nel nucleo, bisogna ricorrere ad alcuni principi di meccanica quantistica che tuttavia non affronteremo in questa sede. Basti solo comprendere che, grazie ad alcuni principi, l’elettrone descrive nel tempo un cosiddetto orbitale, ovvero una densità di probabilità nello spazio attorno al nucleo. Allo stesso modo, nel caso di molecole composte da più atomi, la regione tra i nuclei dei singoli atomi è popolata dagli elettroni con una probabilità data dagli orbitali molecolari, che possono determinarsi combinando gli orbitali atomici.

Risalendo via via lungo la scala delle dimensioni della materia, a livello macroscopico, come sperimentiamo in ogni istante della nostra vita, la materia si presenta poi in stati di aggregazione solido, liquido ed aeriforme, a seconda dell’intensità delle forze di coesione che la caratterizzano. La coesione è una forza di natura elettrostatica che tende a tenere unite le molecole di una certa sostanza, opponendosi a forze esterne che invece tendono a separarle e a deformare la sostanza.

Ma cosa c’entra questo con la cristalloterapia? Ancora un poco di pazienza…

Per capire come i nostri amati cristalli possano interagire con il resto della materia – quale anche noi siamo – dobbiamo spingerci ancora un po’ più in profondità, aumentando l’ingrandimento del nostro microscopio immaginario e cercando di osservare la materia nella sua natura più intima, ovvero al di sotto degli atomi. Si parla appunto di fisica sub-atomica per definire lo studio delle particelle più piccole degli atomi. In realtà tre di esse le abbiamo già incontrate, sono i protoni, i neutroni e gli elettroni, ma lo zoo delle particelle elementari è molto più nutrito, e sembra sempre pronto ad accogliere nuovi ed esotici animali, ciascuno con peculiarità proprie e utili al funzionamento della materia e dell’universo (o meglio alla nostra comprensione di esso).

Si parla infatti di quark, di leptoni, di adroni, di mesoni e barioni ma anche di gluoni, di bosoni, di fotoni e di gravitoni e l’elenco sembra non fermarsi mai, ingrossando le sue fila ogni volta che occorre trovare il responsabile di qualche effetto o iterazione.

C’è stato allora qualcuno (più d’uno in verità) che si è posto questa domanda: e se vi fosse qualcosa di più radicale per spiegare il funzionamento della materia in maniera definitiva, elegante e senza ricorrere a questa pletora di particelle?

Anziché cercare l’ennesima nuova particella si sono pertanto concentrati sull’ipotesi che potesse esservi qualcosa di ancora più piccolo e sfuggente capace però di definirle tutte; è da questo assunto – più o meno – che è nata l’idea della cosiddetta teoria delle stringhe. Sono, queste, entità prive di materia – nell’accezione corpuscolare che comunque connota la visione del modello standard e del suo ricco bestiario di particelle – ma composte essenzialmente solo da energia vibrante.

La variabilità della loro forma e della loro vibrazione sarebbe – secondo questa ipotesi – in grado di differenziare ogni tipo di particella e quindi conseguentemente di materia. A distanza di cinquant’anni dal Nobel di Plank, l’italiano Gabriele Veneziano intuì l’esistenza delle stringhe ma ci vollero altri due anni perché alcuni fisici riuscissero realmente a svilupparne la teoria. Poco tempo dopo, nel 1974,  John Schwarz e Joël Sherk modificando i modi di vibrazione delle stringhe ottennero una particella con spin pari a 2, ovvero il gravitone. La strada era, per così dire, spianata, ma solo dopo altri 10 anni, Michael Green e John Schwarz spiegarono attraverso le stringhe praticamente tutti i fenomeni di interazione della materia, attraendo definitivamente l’attenzione della comunità scientifica e ridefinendo, probabilmente una volta per tutte, l’idea stessa che abbiamo della materia; non più corpuscoli minuti che si agitano nell’aria, quanto piuttosto una diffusa sinfonia di vibrazioni.

Lo stesso Planck, vicino alla sua fine terrena, scrisse “Avendo consacrato tutta la mia vita alla Scienza più razionale possibile, lo studio della materia, posso dirvi almeno questo a proposito delle mie ricerche sull’atomo: la materia come tale non esiste! Tutta la materia non esiste che in virtù di una forza che fa vibrare le particelle e mantiene questo minuscolo sistema solare dell’atomo. Possiamo supporre al di sotto di questa forza, l’esistenza di uno ‘Spirito Intelligente e cosciente’. Questo Spirito è la ragione di ogni materia”; si tratta forse di un’altra mirabile intuizione?

Sta di fatto che, a distanza di non meno di quattromila anni, la fisica occidentale ha trovato le tracce dell’etere induista; l’akasha è infatti il termine per indicare l’essenza base e primaria di tutte le cose del mondo materiale, la cui funzione intrinseca, al pari dello spazio – il non-essere aristotelico – era quello di far esistere tutte le cose al proprio interno. Akasha è la quintessenza, il substrato di Shabda cioè del suono, ovvero della vibrazione per antonomasia…

Dunque, tornando al nostro tema, tutto vibra; tutta la materia è anzi essa stessa una forma di complicatissima vibrazione. E come il nostro corpo, ovvero gli atomi che compongono le molecole che tutte insieme chiamiamo “corpo”, anche i cristalli – oggetto di questo piccolo approfondimento – vibrano. Le frequenze determinate dai modi della vibrazione delle stringhe definiscono le frequenze vibrazionali della materia che compongono. Quando un sistema oscillante (qualsiasi cosa che vibra) viene sottoposto a sollecitazioni periodiche di frequenze pari all’oscillazione propria del sistema stesso si verifica il fenomeno detto “risonanza”.

L’esempio più facile da riprodurre – e, almeno personalmente, da comprendere – è quello di una coppia di diapason; le oscillazioni prodotte dalla percussione di un diapason inducono un identico diapason a vibrare e, quindi, a riprodurre la medesima frequenza. Questo fenomeno ha una valenza fondamentale nel nostro ragionamento perché oltre ad essere il motivo per cui non sprofondiamo nel nulla quando ci appoggiamo a una sedia, spiega anche come si possa realizzare l’iterazione con i cristalli.

Al pari di ogni altra “cosa” dell’universo, rocce e cristalli vibrano e ciascuno di questi lo fa a particolari frequenze. Queste possono, al pari di ogni altra vibrazione, creare – o non – effetti di risonanza con qualsiasi altra “cosa”, noi compresi.

Evidentemente il meccanismo complessivo è un po’ più complicato di quanto non sia sintonizzare la radio sulle frequenze della nostra emittente preferita. Talmente complicato, in realtà, che non si dispone di alcun strumento in grado di misurare le frequenze di una complessità inimmaginabile connesse a tutti i sistemi (atomici, molecolari, organici ed energetici) che insieme definiscono un corpo umano.

Tuttavia in questa ricerca c’è chi ha seguito una via differente. Come per l’agopuntura, l’ayurveda e la medicina tradizionale cinese, per millenni la sperimentazione ha sostituito la dimostrazione. Quando i medici occidentali andarono alla ricerca dei meridiani energetici, che l’evidenza dei fatti rendeva così utili nella trattazione del dolore, non trovarono nulla, deducendone che questi in realtà non esistessero; in verità qualunque praticante della mtc rispondeva loro che non potevano trovarli semplicemente perché non erano “materiali”, ma rappresentavano canali di risonanza energetica, flussi in cui l’energia creava effetti di risonanza.

Minerali (e ancor più i cristalli) lavorano anch’essi in questo modo. La loro frequenza – determinata (e determinante) dalla loro struttura molecolare ed atomica – può creare un effetto risonanza con alcune parti del nostro corpo. E, in assenza di riscontri scientifici, per così dire, la cristalloterapia si avvale dell’esperienza maturata nel corso dei millenni dagli uomini di ogni latitudine. Non esiste luogo del pianeta, infatti, ove ad alcune pietre non venisse riconosciuto un potere specifico. Tuttavia, se queste capacità nel tempo non possono cambiare, dipendendo dall’iterazione profonda tra elementi materiali ed energetici, ciò che è davvero cambiato siamo noi.

Già perché due sono gli elementi che collaborano alla definizione dell’efficacia complessiva di un minerale ed ovvero le sue proprietà intrinseche e il suo valore simbolico. Se il primo è per sua natura immutabile, altrettanto non può dirsi del secondo.

Questo infatti dipende profondamente del contesto culturale in cui lo strumento viene impiegato. Attribuire a uno strumento qualsiasi (dalla scheggia di ametista al farmaco chemioterapico) proprietà medicinali e curative significa riconoscergli sinceramente la capacità di interagire con il funzionamento del nostro corpo. Se pensiamo che l’ametista non sia altro che un bel cristallo dai riflessi violacei, difficilmente potremmo beneficiare dei suoi effetti riequilibranti, anche a discapito delle sue intrinseche facoltà; queste infatti saranno implicitamente (e in modo trasparente) ostacolate da una forma di energia di pari dignità (anzi superiore) cioè quella di cui tutti gli esseri viventi vivono e producono.

Ciò non significa che l’effetto placebo derivante dalla fiducia nelle capacità di un minerale sia il vero attore nei processi curativi, quanto piuttosto che laddove il soggetto ostacoli (seppur involontariamente) il fenomeno di risonanza, la pietra in argomento non potrà produrre appieno i propri effetti.

Va poi osservato come nel ricorso consapevole alla cristalloterapia non possiamo dimenticare – a pena di vanificarne i possibili benefici – come ciascun minerale possa avere effetti estremamente diversificati. Facciamo un esempio paradossale; se qualcuno desiderasse un energizzante naturale potrebbe certamente trovare utile ricorrere a qualche tipo di estratto di ginseng. Tuttavia dovrebbe anche accertarsi delle proprie condizioni generali di salute, in quanto un uso inadeguato di questa meravigliosa radice potrebbe avere spiacevoli effetti, tra l’altro, sul sistema circolatorio e nervoso. Allo stesso modo dobbiamo imparare a diffidare di ricette preconfezionate sull’impiego dei cristalli.

Salvo che non li si consideri dei meri pezzi di materia colorata, privi di ogni valore intrinseco o simbolico, agiamo con prudenza e rivolgiamoci, per il loro uso, solo a operatori qualificati che possano consigliarci lo strumento migliore per quella singola circostanza!

Inoltre pare doveroso soffermarsi qualche istante sulla profonda differenza che tuttavia insiste tra l’impiego di un rimedio allopatico  (aspirina) ed uno energetico (cristalli). Ciascuno di essi ha pro e contro che vanno sempre considerati e che, spesso, inducono a ritenere la seconda via complementare alla prima.

Un rimedio allopatico, come un farmaco, agirà a livello biochimico sul funzionamento delle molecole target (obiettivo principale e secondario). L’effetto così prodotto, a propria volta, si ripercuoterà a livello atomico e subatomico andando infine a modificare il modo vibrazionale delle stringhe che sottendono alla definizione della materia interessata dall’azione del farmaco. L’effetto sarà quindi veloce, spesso rapidamente percepibile ma anche portatore di inevitabili effetti collaterali, seppur non necessariamente nefasti. Un cristallo invece – al pari di altri strumenti a vocazione olistica e di tipo energetico – agirà per così dire dal basso, andando a interagire direttamente con le frequenze vibrazionali delle stringhe che solo successivamente andranno a modificare, a partire dal livello sub-atomico, il funzionamento biochimico delle cellule attraverso lo scambio energetico che ne sarà l’effetto finale. Il feedback sarà quindi generalmente più lento seppur più profondo e solo apparentemente debole ma, attenzione, necessariamente non privo di effetti collaterali, tanto a livello energetico quanto biochimico; anch’essi, ovviamente, non necessariamente negativi ma comunque da prendere in considerazione e da tenere sotto controllo.

Da ciò deriva l’impiego assai più agevole – nell’uso comune – di strumenti allopatici anche se questi, in linea di massima, tendono ad occuparsi dei sintomi di una condizione patologica piuttosto che cercare di riequilibrare le disarmonie energetiche presenti in tutti noi. Non è infatti un caso se anche in oriente, patria di culture mediche alternative millenarie, si sia ormai consolidato la medicina occidentale. Essa da senza dubbio ottimi risultati in tempi assai ragionevoli e, soprattutto, in genere non richiede necessariamente una partecipazione attiva del “paziente” ne per definire la terapia ne per determinarne l’efficacia.

Va considerato, infine, che come ogni sistema complesso, anche quello cristallino è in grado di “assorbire” le vibrazioni provenienti dall’esterno; a ciò si deve, per esempio, la capacità di alcuni minerali di “proteggere” da campi elettromagnetici o altre forme di vibrazione. Si tratta, a onor del vero, di un sistema di comunicazione assai complesso, in cui ciascuno dei suoi componenti (l’uomo, la terra, gli animali,…) invia molteplici segnali e altrettanti ne riceve, in un dialogo musicale di complessità cosmica. Forse un giorno disporremo di strumenti che ci consentano di vedere più chiaramente gli spartiti che sorreggono questa sinfonia energetica ma, nel frattempo, non ci resta che affidarci alla sperimentazione; quella maturata nel corso dei secoli da ogni popolo ma anche quella che deve affrontare personalmente chi voglia cimentarsi su questi affascinanti sentieri.

In conclusione, assodata la possibilità di una reale interazione tra l’uomo e il mondo minerale, non resta che aprire ad essi tutti i nostri sensi – e la nostra mente – per riscoprire un potente alleato per il nostro benessere.